venerdì 29 novembre 2013

LA TERRA DELL'OLTRE






-"Perché fai Yoga?" - 
Lo domando spesso ai miei allievi. 
E non è una domanda retorica.
Io non lo so perché da quarantanni mi annodo le gambe, recito mantra, ascolto la respirazione, medito.
Non ne ho idea.
E se rispondessi che per me il fine dello Yoga è la Liberazione, mentirei.
Liberazione da che?
Ammetto di non aver mai trovato risposte dentro di me.
Le ho cercate nei libri e nei discorsi altrui, come tutti, in fin dei conti.
Ogni scuola, ogni "lignaggio", ha un suo concetto di liberazione o illuminazione o realizzazione, e, alla fin fine, se si legge o si ascolta, di quello si tratta: di concetti




monte Kailash

Uno dei più antichi insegnamenti buddisti, ripreso poi da Ramakrishna, Vivekananda e altri, è quello della doppia catena.
Esistono due catene che impediscono all'uomo di elevarsi da una condizione, giudicata dagli yogin miserevole: la prima è una catena di ferro, l'altra è una catena d'oro.
La catena di ferro sarebbe per alcuni, il male, l'altra il bene.
Da una parte l'assenza di regole e leggi che non siano la legge del più forte, l'immoralità, le pulsioni più basse, dall'altra le leggi della società civile, la moralità, l'aspirazione al bene comune.
Gli anelli della catena di ferro sono le azioni che produrrebbero "karma cattivo", quelli della catena dorata, invece, sono le azioni che portano "karma buono".
Ovviamente il ferro porta al regno dei demoni e l'oro al regno degli dei anche se ogni religione  definirà, poi, i due regni in maniera diversa, Inferno e Paradiso, ad esempio, oppure rinascita infausta o fortunata. 





Il dividere le azioni in buone e cattive e il promettere Inferno e sofferenza a chi non è bravo e Paradiso e beatitudine a chi lo è ha degli effetti positivi sulla vita quotidiana ed ha il merito di essere un insegnamento semplice e accessibile anche alle menti meno brillanti.
Se ad un bambino insegno che l'avarizia conduce a rinascere scarafaggio, e la generosità ad una futura vita da principe probabilmente comincerà a regalare i suoi giocattoli a destra e manca.
Le credenze consolatorie, le prefigurazioni di immaginifici Regni dei Cieli sono finalizzate a spingere, giustamente, gli esseri umani verso il Bene, inteso come moralità. Se proprio si deve scegliere è meglio  scegliere la catena d'oro!
Eppure gli yogin parlano di doppia catena di cui liberarsi, o di doppia spina da estrarre dalla carne.
Leggendo, ascoltando, praticando, al di là delle infinite discussioni sul rapporto tra oriente e occidente, sulle divergenze vere o presunte tra Vedanta e Tantra, sugli influssi taoisti sul buddismo tibetano, sulla differenza tra samadhi nirvikalpa e savikalpa mi sono fatto l'idea che esistano, grosso modo, due diverse concezioni, due linee di insegnamento che affermano cose affatto diverse.
Da una parte le teorie consolatorie, necessarie alla conservazione del mondo come lo conosciamo, dall'altro gli insegnamenti dell'al di là, dove "al di là" non è il regno della morte, ma il territorio dell'OLTRE, "la terra Misteriosa dalla quale nessun viaggiatore ha mai fatto ritorno" di Amleto e dei cavalieri del Graal.
Anche Lao Tse, mi pare, parla della terra da cui non si può tornare.
E pure il tantrismo tibetano. 





L'insegnamento dell'Oltre (oltre le leggi fisiche, oltre le leggi dell'uomo, oltre le leggi degli dei) si accompagna a quelli, spesso fraintesi, della VIA DIRETTA e della NON AZIONE.
Per descrivere lo stato del realizzato, di colui che si è liberato di entrambe le catene, taoisti e buddisti fanno l'esempio del viaggiatore che si costruisce una zattera per passare il fiume e raggiungere un paese sconosciuto.
La zattera è il praticante e il praticante è la pratica (Il Sadhana è il sadhaka...).
Una volta superate le acque ("... come quei che con lena affannata, uscito fuor dal pelago alla riva, si volge all'acqua perigliosa e guata...") e raggiunta la terra dell'oltre il viaggiatore che fa?
Prosegue il suo viaggio, lasciando la zattera sulla riva.
Non la porta con sé.
L'Al di là, la "Terra Misteriosa dalla quale nessun viaggiatore ha mai fatto ritorno" viene spesso identificata con la Morte, ed ha un senso:nessuno torna indietro perché chi ha intrapreso il viaggio non esiste più.
L'incarnazione, intesa come presa di coscienza della propria individualità del proprio essere altro dalla natura, è dovuta, per il buddhismo Mahayana, alle cinque emozioni negative: 


Ignoranza. 
Odio e Rabbia. 
Gelosia e Invidia. 
Passione e Desiderio di possesso. 
Orgoglio e Superbia.

La pratica, il Sadhana, consiste nel riconoscere queste emozioni negative, nel trasformarle e nell'integrarle.
Per farlo occorre scendere nell'inconscio (dove germogliano i semi della manifestazione) catturare le forze considerate negative e condurle alla luce, alla coscienza, per scoprire che si tratta di ciò che un tempo chiamavamo divinità.
Le forze del male, gli Asura, sono le forze stesse della natura, l'energia della generazione.
Credersi altro dalla natura significa credersi altro da Sé e tutto ciò che ci spinge all'integrazione, viene visto come un pericolo per la nostra individualità.
E' l'Ego a creare il male.
Ma l'Ego, per lo Yoga, semplicemente non esiste.
La luce è sempre bianca, è la percezione, la mente, a scinderla illusoriamente e a farci apparire i mille e mille colori diversi.
Ma la  natura della luce è sempre uguale a se stessa.
La simbologia del tantrismo tibetano è assai precisa.
I cinque colori, bianco, blu, verde, rosso, giallo, rappresentano i cinque elementi (spazio, acqua,aria, fuoco, terra), le cinque percezioni (udito,gusto,tatto,vista,odorato), le cinque azioni (parlare, generare, afferrare, andare, evacuare), i cinque dhyani Buddha (Vairochana, Akshobia, Amogasiddhi, Amithaba, Ratnasambhava) e le cinque emozioni negative (ignoranza, odio, gelosia, passione, orgoglio). 

Ma simboleggiano anche le cinque dakini, o dee o Tara dei cinque colori, che unite ai loro sposi sanciscono l'integrazione tra forze inconsce e coscienza, tra bene e male, tra spirito e materia. 




Chi riconosce in sé le cinque emozioni negative, le trasforma per poi integrarle nella luce della coscienza, raggiunge lo stato della non azione.
Che non significa non muoversi, rimanere in uno stato di passività, dedicare la vita alla contemplazione, ma essere "Libero" da quelle emozioni negative che "danno sapore" a quelle azioni.
Yama e Nyama , gli insegnamenti cosiddetti etici di Dattatreya e Patanjali, non sono, per chi ha integrato le emozioni negative, dei "comandamenti", delle regole da osservare, ma sono lo stato naturale di chi ha raggiunto la Terra dell'oltre.
Se io sono "natura", se io sono "tutti gli esseri viventi", perché dovrei , volontariamente, arrecare del male a qualcuno? 

Perché dovrei cercare di appropriarmi dei beni altrui?
L'essereumano soffre perché è continuamente in lotta con l'ego.
E l'ego è intessuto dei fili delle emozioni negative.
Una volta che si è data forma a quelle emozioni e le si è condotte alla luce, le vediamo come un fiume, un fiume che rappresenta l'esistenza stessa.
Lo yogin attraversa quel fiume e giunge nella terra dell'Oltre.
Abbandona la sua zattera (la pratica) e "torna a casa".
La luce è tutta bianca.
Anzi è incolore.
E' l'ego a creare i colori.
I colori sono l'Ego.
Lo yoga è un viaggio senza ritorno, ad ogni tappa ( samadhi) mente, parola, corpo, pensiero, energia e materia, si trasformano fino a scoprirsi Uno e alla fine il viaggiatore semplicemente non c'è.
Come potrebbe tornare indietro?
Se lo yoga ha un fine è quello di permetterci di creare un confine, una linea che separa il prima dal dopo.
Il fiume che, nei racconti taoisti e buddisti, ci si accinge a superare, riflette la nostra faccia, i nostri occhi, la nostra memoria.
La zattera, la pratica, è ciò che purifica la memoria e purificare la memoria significa portare alla luce le emozioni, le pulsioni che si celano dietro ad ogni nostra azione, ogni nostro pensiero, e riconoscerle come spose, sorelle, madri delle forze della creazione.
Se si purifica la memoria lo sguardo si spinge oltre, si fa profondo, sempre più profondo.
Guardare dentro o fuori non fa differenza per lo yogin.
E' lì, sulla riva del fiume, con la nostra zattera piena di tecniche e di parole che si deve tracciare la linea di confine.
Se specchiandosi nelle acque, ci pigliamo paura guardando il deserto silenzioso in fondo agli occhi, la memoria (le emozioni) prende il sopravvento e ci "reincarniamo" nel senso che torniamo a ricostruirci un ego, una parvenza di individualità.
Se decidiamo di continuare il viaggio ci troveremo nella terra dell'Oltre, dove sia il viaggio che il viaggiatore saranno forse, solo un vago ricordo, come "un sogno sognato da un ombra".

 
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