venerdì 29 novembre 2013

LA MENTE PER LO YOGA TIBETANO

" ....meglio identificare l'io con il corpo che con la mente, perché il corpo può durare uno o due o cento anni, mentre quella che chiamiamo mente o pensiero o conoscenza appare e scompare in perenne mutamento.
Come la scimmia che gioca nella foresta afferra un ramo e poi lo lascia per afferrarne un altro, così quella che chiamiamo mente, pensiero o conoscenza appare e scompare in perenne mutamento, giorno e notte [...]" 

Shakyamuni -"Samyutta Nikaya"



Per indicare la mente gli yogin tibetani usano tre parole diverse: Séms, Yid e Lo (blo).
Tutto ciò che riguarda le capacità diimmaginare, classificare, discriminare, il rimanere impressionati dagli impulsi esterni o al contrario essere distaccati, essere agitati, calmi, distratti ecc. è riferito alla mente Lo che in sanscrito potrebbe essere tradotto con Manas.


yid è invece l'intelletto puro, l'intuizione che arriva come una sciabolata di luce improvvisa, la capacità di deliberare decidere, senza scelta, senza ragionamenti sui pro e i contro...
Sèms è il principio vitale, la caratteristica di tutti gli esseri viventi.
Il principio coscienza che passa di corpo in corpo e di vita in vita per la teoria della reincarnazione, è detto Namshés considerato sinonimo di Séms ma che non gli corrisponde completamente.
Namshés è quello che in india è definito Jiva.
La meditazione serve a comprendere che Séms, Yid e Lo NON SONO FLUSSI DI ENERGIA o SISTEMI legati all'EGO  o identificati con l'EGO.
Dice Buddha (Samyutta Nikaya):

" ....meglio identificare l'io con il corpo che con la mente, perché il corpo può durare uno o due o cento anni, mentre quella che chiamiamo mente o pensiero o conoscenza appare e scompare in perenne mutamento.
Come la scimmia che gioca nella foresta afferra un ramo e poi lo lascia per afferrarne un altro, così quella che chiamiamo mente, pensiero o conoscenza appare e scompare in perenne mutamento, giorno e notte
[...] "

Cosa significa?
Gli strumenti dell'essere umano, per lo Yoga, sono corpo/parola/mente, anzi l'essere umano è corpo/parola/mente.
In assenza anche di uno solo dei tre fattori (principi o elementi), che hanno caratteristiche diverse, non si può parlare di "Essere umano".




L'unica Realtà "permanente" per i tibetani è "Kun Ji Namparshespa" la DIMORA o RIFUGIO, che potremmo chiamare anche Brahman, o ālaya.
Kun Ji Namparshespa è un flusso ininterrotto nel quale galleggiano dei "quanti", o meglio dei grumi di "coscienza/conoscenza" che sono i fenomeni.
La vita di un singolo essere umano è uno di questi grumi di coscienza/conoscenza che nel fluire del fiume dell'Essere si incontra per caso con altri grumi di coscienza/conoscenza. 
L'acqua dell'eterno e infinito "Fiume di Prima dell'Inizio",  dal nostro punto di vista muta ad ogni istante perché chi osserva è la mente/scimmia.
Le neuro scienze hanno dimostrato che i processi legati al cervello, alla creazione di sinapsi, alla interpretazioni dei fenomeni, hanno una durata di qualche miliardesimo di secondo.
Se si porta l'attenzione sul corpo e sulla sua evoluzione, che pure sono legati a quei processi, si avrà la possibilità di osservare un fenomeno che si svolge in un tempo, come dice Shakyamuni, calcolabile in anni ("uno, due, cento").
Rispetto al flusso dell'essere sia il pensiero che il corpo sono fenomeni impermanenti, sono cioè uguali dal punto di vista qualitativo, ma c'è una differenza quantitativa che possiamo utilizzare per "CONOSCERE".
I nostri pensieri, i desideri, le idee NON CI APPARTENGONO, sono come rami, foglie secche o pezzi di plastica che scorrono senza posa nel Kun Ji Namparshespa. 
Cercare le motivazioni profonde, le radici delle nostre idee, considerazioni, decisioni è IMPOSSIBILE, per lo Yoga.
Esaminare i propri pensieri alla ricerca della loro sorgente in una vita precedente, in uno shock infantile, in una conferma di teorie psicanalitiche, filosofiche o religiose, è inutile.
Questo non significa che  sia un esercizio inutile anche per  discipline con altre finalità, ma il fine dello Yoga, l'illuminazione, è la liberazione dai vincoli che ci impediscono di "lasciarci fluire nel fiume dell'Essere e scoprirsi uno con l'Essere" e questi vincoli non sono né soggettivi, né vaghi e indefiniti: sono I CINQUE VELI DELLA DEA, legati ai cinque elementi, ai cinque veleni (le cinque emozioni negative), ai cinque Dhyani Buddha o alle cinque teste di Shiva.
I cinque Veli o vincoli, sono:

1)La limitazione dello spazio
elemento Etere, 
Dhyani Buddha Vairochana (nei veda è figlio di Agni o di Visnu, ha quattro teste come Brahma), 
emozione negativa dell'Ottusità e dell'Ignoranza. 






2)La limitazione della Conoscenza o "Vidya", 
elemento Aria, 
Dhyani Buddha Amogasiddhi, 
emozione negativa dell'Invidia e della Gelosia. 







3) La limitazione della Passione
elemento Fuoco, 
Dhyani Buddha Amitabha (che significa "Luce - Bha - senza fine o senza morte"), 
emozione negativa della concupiscenza e del Desiderio di Possesso.






4) La limitazione del Tempo
elemento Acqua, 
Dhyani Buddha Akshobia
emozione negativa dell'Odio. 







5) La limitazione di Causa-Effetto
elemento Terra, 
Dhyani Buddha Ratnasambhava
emozione negativa dell'orgoglio e della presunzione. 




La meditazione sulla mente o sui contenuti psichici, usata come strumento in molte tecniche che confinano con lo yoga ma che sono legate alla via PSICOLOGICA, come l'ho definita a volte, secondo me è utile solo se, collegandola alla meditazione con seme su fenomeni fisici (yantra, suoni, processi fisiologici....) conduce al samadhi che è uno strumento di risoluzione dei vincoli o Veli della Dea.
Se invece si lavora sui propri pensieri alla ricerca di una ragione, un motivo, una sorgente, il risultato che otterremo sarà un pensiero anch'esso, mutevole alla velocità della luce e sottoposto al velo limitante della CAUSALITA'.
Con la meditazione sui "contenuti psichici" il meditante allena la mente e sviluppa la capacità di penetrare, per così dire alcuni strati di motivazioni, giustificazioni, ecc. ma partire da un pensiero per giungere ad un altro pensiero è come piantare del pane per ottenere del grano da cui produrre pane.

LA TERRA DELL'OLTRE






-"Perché fai Yoga?" - 
Lo domando spesso ai miei allievi. 
E non è una domanda retorica.
Io non lo so perché da quarantanni mi annodo le gambe, recito mantra, ascolto la respirazione, medito.
Non ne ho idea.
E se rispondessi che per me il fine dello Yoga è la Liberazione, mentirei.
Liberazione da che?
Ammetto di non aver mai trovato risposte dentro di me.
Le ho cercate nei libri e nei discorsi altrui, come tutti, in fin dei conti.
Ogni scuola, ogni "lignaggio", ha un suo concetto di liberazione o illuminazione o realizzazione, e, alla fin fine, se si legge o si ascolta, di quello si tratta: di concetti




monte Kailash

Uno dei più antichi insegnamenti buddisti, ripreso poi da Ramakrishna, Vivekananda e altri, è quello della doppia catena.
Esistono due catene che impediscono all'uomo di elevarsi da una condizione, giudicata dagli yogin miserevole: la prima è una catena di ferro, l'altra è una catena d'oro.
La catena di ferro sarebbe per alcuni, il male, l'altra il bene.
Da una parte l'assenza di regole e leggi che non siano la legge del più forte, l'immoralità, le pulsioni più basse, dall'altra le leggi della società civile, la moralità, l'aspirazione al bene comune.
Gli anelli della catena di ferro sono le azioni che produrrebbero "karma cattivo", quelli della catena dorata, invece, sono le azioni che portano "karma buono".
Ovviamente il ferro porta al regno dei demoni e l'oro al regno degli dei anche se ogni religione  definirà, poi, i due regni in maniera diversa, Inferno e Paradiso, ad esempio, oppure rinascita infausta o fortunata. 





Il dividere le azioni in buone e cattive e il promettere Inferno e sofferenza a chi non è bravo e Paradiso e beatitudine a chi lo è ha degli effetti positivi sulla vita quotidiana ed ha il merito di essere un insegnamento semplice e accessibile anche alle menti meno brillanti.
Se ad un bambino insegno che l'avarizia conduce a rinascere scarafaggio, e la generosità ad una futura vita da principe probabilmente comincerà a regalare i suoi giocattoli a destra e manca.
Le credenze consolatorie, le prefigurazioni di immaginifici Regni dei Cieli sono finalizzate a spingere, giustamente, gli esseri umani verso il Bene, inteso come moralità. Se proprio si deve scegliere è meglio  scegliere la catena d'oro!
Eppure gli yogin parlano di doppia catena di cui liberarsi, o di doppia spina da estrarre dalla carne.
Leggendo, ascoltando, praticando, al di là delle infinite discussioni sul rapporto tra oriente e occidente, sulle divergenze vere o presunte tra Vedanta e Tantra, sugli influssi taoisti sul buddismo tibetano, sulla differenza tra samadhi nirvikalpa e savikalpa mi sono fatto l'idea che esistano, grosso modo, due diverse concezioni, due linee di insegnamento che affermano cose affatto diverse.
Da una parte le teorie consolatorie, necessarie alla conservazione del mondo come lo conosciamo, dall'altro gli insegnamenti dell'al di là, dove "al di là" non è il regno della morte, ma il territorio dell'OLTRE, "la terra Misteriosa dalla quale nessun viaggiatore ha mai fatto ritorno" di Amleto e dei cavalieri del Graal.
Anche Lao Tse, mi pare, parla della terra da cui non si può tornare.
E pure il tantrismo tibetano. 





L'insegnamento dell'Oltre (oltre le leggi fisiche, oltre le leggi dell'uomo, oltre le leggi degli dei) si accompagna a quelli, spesso fraintesi, della VIA DIRETTA e della NON AZIONE.
Per descrivere lo stato del realizzato, di colui che si è liberato di entrambe le catene, taoisti e buddisti fanno l'esempio del viaggiatore che si costruisce una zattera per passare il fiume e raggiungere un paese sconosciuto.
La zattera è il praticante e il praticante è la pratica (Il Sadhana è il sadhaka...).
Una volta superate le acque ("... come quei che con lena affannata, uscito fuor dal pelago alla riva, si volge all'acqua perigliosa e guata...") e raggiunta la terra dell'oltre il viaggiatore che fa?
Prosegue il suo viaggio, lasciando la zattera sulla riva.
Non la porta con sé.
L'Al di là, la "Terra Misteriosa dalla quale nessun viaggiatore ha mai fatto ritorno" viene spesso identificata con la Morte, ed ha un senso:nessuno torna indietro perché chi ha intrapreso il viaggio non esiste più.
L'incarnazione, intesa come presa di coscienza della propria individualità del proprio essere altro dalla natura, è dovuta, per il buddhismo Mahayana, alle cinque emozioni negative: 


Ignoranza. 
Odio e Rabbia. 
Gelosia e Invidia. 
Passione e Desiderio di possesso. 
Orgoglio e Superbia.

La pratica, il Sadhana, consiste nel riconoscere queste emozioni negative, nel trasformarle e nell'integrarle.
Per farlo occorre scendere nell'inconscio (dove germogliano i semi della manifestazione) catturare le forze considerate negative e condurle alla luce, alla coscienza, per scoprire che si tratta di ciò che un tempo chiamavamo divinità.
Le forze del male, gli Asura, sono le forze stesse della natura, l'energia della generazione.
Credersi altro dalla natura significa credersi altro da Sé e tutto ciò che ci spinge all'integrazione, viene visto come un pericolo per la nostra individualità.
E' l'Ego a creare il male.
Ma l'Ego, per lo Yoga, semplicemente non esiste.
La luce è sempre bianca, è la percezione, la mente, a scinderla illusoriamente e a farci apparire i mille e mille colori diversi.
Ma la  natura della luce è sempre uguale a se stessa.
La simbologia del tantrismo tibetano è assai precisa.
I cinque colori, bianco, blu, verde, rosso, giallo, rappresentano i cinque elementi (spazio, acqua,aria, fuoco, terra), le cinque percezioni (udito,gusto,tatto,vista,odorato), le cinque azioni (parlare, generare, afferrare, andare, evacuare), i cinque dhyani Buddha (Vairochana, Akshobia, Amogasiddhi, Amithaba, Ratnasambhava) e le cinque emozioni negative (ignoranza, odio, gelosia, passione, orgoglio). 

Ma simboleggiano anche le cinque dakini, o dee o Tara dei cinque colori, che unite ai loro sposi sanciscono l'integrazione tra forze inconsce e coscienza, tra bene e male, tra spirito e materia. 




Chi riconosce in sé le cinque emozioni negative, le trasforma per poi integrarle nella luce della coscienza, raggiunge lo stato della non azione.
Che non significa non muoversi, rimanere in uno stato di passività, dedicare la vita alla contemplazione, ma essere "Libero" da quelle emozioni negative che "danno sapore" a quelle azioni.
Yama e Nyama , gli insegnamenti cosiddetti etici di Dattatreya e Patanjali, non sono, per chi ha integrato le emozioni negative, dei "comandamenti", delle regole da osservare, ma sono lo stato naturale di chi ha raggiunto la Terra dell'oltre.
Se io sono "natura", se io sono "tutti gli esseri viventi", perché dovrei , volontariamente, arrecare del male a qualcuno? 

Perché dovrei cercare di appropriarmi dei beni altrui?
L'essereumano soffre perché è continuamente in lotta con l'ego.
E l'ego è intessuto dei fili delle emozioni negative.
Una volta che si è data forma a quelle emozioni e le si è condotte alla luce, le vediamo come un fiume, un fiume che rappresenta l'esistenza stessa.
Lo yogin attraversa quel fiume e giunge nella terra dell'Oltre.
Abbandona la sua zattera (la pratica) e "torna a casa".
La luce è tutta bianca.
Anzi è incolore.
E' l'ego a creare i colori.
I colori sono l'Ego.
Lo yoga è un viaggio senza ritorno, ad ogni tappa ( samadhi) mente, parola, corpo, pensiero, energia e materia, si trasformano fino a scoprirsi Uno e alla fine il viaggiatore semplicemente non c'è.
Come potrebbe tornare indietro?
Se lo yoga ha un fine è quello di permetterci di creare un confine, una linea che separa il prima dal dopo.
Il fiume che, nei racconti taoisti e buddisti, ci si accinge a superare, riflette la nostra faccia, i nostri occhi, la nostra memoria.
La zattera, la pratica, è ciò che purifica la memoria e purificare la memoria significa portare alla luce le emozioni, le pulsioni che si celano dietro ad ogni nostra azione, ogni nostro pensiero, e riconoscerle come spose, sorelle, madri delle forze della creazione.
Se si purifica la memoria lo sguardo si spinge oltre, si fa profondo, sempre più profondo.
Guardare dentro o fuori non fa differenza per lo yogin.
E' lì, sulla riva del fiume, con la nostra zattera piena di tecniche e di parole che si deve tracciare la linea di confine.
Se specchiandosi nelle acque, ci pigliamo paura guardando il deserto silenzioso in fondo agli occhi, la memoria (le emozioni) prende il sopravvento e ci "reincarniamo" nel senso che torniamo a ricostruirci un ego, una parvenza di individualità.
Se decidiamo di continuare il viaggio ci troveremo nella terra dell'Oltre, dove sia il viaggio che il viaggiatore saranno forse, solo un vago ricordo, come "un sogno sognato da un ombra".

 
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giovedì 28 novembre 2013

IL PORCO, IL VINO E LA CONOSCENZA DI BUDDHA

Spesso, per ciò che riguarda lo yoga, anziché studiare i testi antichi, confrontando il più possibile varie interpretazioni e traduzioni, molti praticanti tentano di adeguare le parole dei maestri alle loro credenze o, peggio, di mettere la firma di quei maestri in calce alle loro riflessioni.
Altre volte, parandosi dietro lo scudo della devozione, si abbraccia una particolare interpretazione senza prendersi la briga di controllare cosa ci sia scritto nel testo originale ( cosa, in tempi di internet e vocabolari on line, piuttosto agevole).
Non so se questo sia un bene o un male.

Di certo alcune credenze moderne si sono ormai sostituite alle verità storiche e se Yogin e Maestri del passato sentissero quanto oggi  si racconta di loro stenterebbero a riconoscersi.


Q tempo fa, dopo una serie di accese discussioni sul buddhismo e sulle abitudini sessuali e alimentari dei monaci mi sono riletto "Vita di Milarepa", e sono rimasto un pochino perplesso.
L'edizione che ho è quella di  Adelphi, a cura di Jacques Bacot.
Pg. 161: 

"Così detto [Peta, la sorella di Milarepa] mi diede il cibo e il vino. 
Mangiai e bevvi e immediatamente la mia intelligenza si rischiarò. 
Quella sera la mia devozione ne trasse molto vantaggio." 

Pgg. 161-162-163:
"Qualche giorno dopo Dresse venne a trovarmi insieme a Peta, portandomi carne,burro rancido, tsampa e molta birra[...] Se ne andarono e io mangiai i buoni cibi che avevano portato[...] le mie vene [nadi], per via dell'uso dei cibi cattivi, si erano tutte annodate e non potevano sostenersi. Quindi la birra di Peta le rianimò un poco.
Le offerte di Dzesse
 [carne, burro, Tsampa, farina] finirono per rianimarmi del tutto. 
[...]Conformemente alle prescrizioni del rotolo di carta [ il rotolo sigillato che gli aveva dato il Lama Marpa e che conteneva delle formule e l'indicazione di mangiare cibi nutrienti, ovvero carne, burro, vino, birra....]mi sforzai di realizzare le condizioni di corpo, respiro, pensiero. 
[...] Capii che la via delle inclinazioni sensuali, che è la via dei tantra, non poteva essere una via normale praticata da tutti. [...] Ne ero debitore a Peta e a Dzesse [...]"

Pg. 180:
"Quand'anche io volessi sopprimere la mia virilità non potrei farlo."



Considerando (1) che Milarepa è considerato il più grande yogi tibetano,
(2)che Milarepa è ineluttabilmente buddista, (3)che il suo lignaggio è quello di Naropa, ovvero dell'iniziazione sessuale, non è che il testo sorprenda molto.
Le parole dello Yogin tibetano stridono però con l'idea che la maggior parte delle persone ha dello yoga, del buddismo e delle pratiche corporee.
Shakyamuni è morto per una indigestione da carne di porco, ma quando lo racconto ai miei amici vegani o non ci credono o fanno finta di non aver sentito.
Ovviamente questo non trascurabile dettaglio (la morte di Shakyamuni per indigestione di maiale) non significa che Buddha consigliasse di uccidere degli animali o mangiare carne, ma a me viene spontanea una domanda: "siamo sicuri che Shakyamuni, che ha mangiato cibo animale fino a morirne, abbia mai proibito agli altri di mangiarne?"
Non sarà che alcune prescrizioni per i singoli allievi sono state interpretate come insegnamento generale (o universale)?
Milarepa e Shakyamuni per me erano, sono, maestri autentici (potrei dire "I" MAESTRI]
E sono stati, sono, dei grandi uomini.
A volte mi viene il sospetto che li si voglia trasformare, loro come molti altri, in santini, figurine dipinte da usare come cura per l'ansia di incompiutezza.
Esempi irraggiungibili utili per giustificare le nostre meschinità.
Milarepa e Shakyamuni, sono esseri umani in ciccia, muscoli ed ossa. mangiano carne, a volte, bevono alcolici, fanno sesso.
Sono lì, davanti a noi e ci dicono: -"Noi possediamo la conoscenza, se volete possiamo darla anche a voi...."-
Ma noi la vogliamo veramente la conoscenza di cui parlano Shakyamuni e Milarepa?